domenica 13 aprile 2008

PRENEZ SOIN DE VOUS


Ancora Parigi.


Ho comprato tre paia di scarpe a soli 23 euro. Ho ingoiato formaggio almeno tre volte al giorno e sono andata a vedere tre mostre.
Tutto questo è superficiale e intenso quanto basta. Profondamente chic.


Delle tre mostre una è quella di Sophie Calle allestita tra i banchi della BNF Richelieu e sponsorizzata da Chanel. Il titolo -Prenez soin de vous- riprende l’ultima riga della lettera d’addio che Sophie C. ha ricevuto dal suo ultimo ex uomo.


Lui (X) pieno di rammarico e apparente nostalgia, dopo lunghi giri di parole ("je vous aime..." ecc. ecc.ecc.) le dice vigliaccamente addio invitandola a prendersi cura di sé. Chissa perché -mi chiedo- le dà del Lei.
Lei –«J’ai reçu un mail de rupture. Je n’ai pas su répondre.C’était comme s’il ne m’était pas destiné»- lo prende in parola e invita 107 donne a leggere, interpretare, ricamare, sputare su quella lettera. A prendersi cura di lei.


Attrici, traduttrici e soprani. Matematiche, fisiche, correttrici di bozze e performer. Adolescenti e speaker radiofoniche, pianiste, registe e architette, agenti dei servizi e esegete del Talmud.
E poi ancora avvocate, attrici, normaliennes, giornaliste, ballerine di tango, cantatrici di fado.

Tutte hanno avuto una copia della lettera tra le mani, ognuna ne ha fatto ciò che ha voluto a modo proprio.
La cantante l’ha cantata, la detective ha scritto l’identikit del malfattore, l’adolescente ha risposto con un sms ('Se la tira di brutto questo'), l’avvocato ha chiesto i danni per fraudolenza, la correttrice di bozze ha sottolineato in rosso le ripetizioni e in blu le imprecisioni terminologiche. Jeanne Moreau l’ha letta seduta al tavolo di casa sua, fumando una sigaretta. Victoria Abril nel suo letto di prima mattina.


Il risultato è una fitta ragnatela emotiva in cui Sophie si dondola e si compiace dello spettacolo. E io che, al solito, mi commuovo al centro di questo girotondo di splendide donne.

La cura di sé supera di gran lunga l’orizzonte delle creme anticellulite.

sabato 5 aprile 2008

JE NE REGRETTE RIEN. O QUASI


Un rifiuto è un rifiuto e ci vuole sempre un tempo ragionevole per elaborarlo.


La ragione però impiega un tempo X, mentre tutto quell’ammasso che ragione non è, nel mio caso, ci mette troppo tempo. Ed è una vita (una vita di 28 anni e mezzo) che si va avanti così.


Ci mette troppo tempo perché si ostina a non mollare la presa, a rimanere incollato alla scena primaria, a mandarla in loop in giro per la testa, cosa sintomatica per una con poca memoria.


Parigi è stronza come solo poche donne sanno esserlo. Quelle che se la tirano, civettano, si compiacciono. Quelle che non perdono la testa, o almeno non la perdono per te. Esiste anche la variabile maschile ma Parigi è donna, troppo donna, per essere paragonata a un seduttore qualunque.


Je ne regrette rien. Quattro anni e mezzo che non saprei riassumere in nessun modo.


Diciamo che ho imparato una lingua. Ho scoperto che non mi piace per niente il mio nome con l’accento sull’ultima a.

Ho imparato a andare in bicicletta, a ridere faticosamente di giochi di parole che all’inizio mi lasciavano pietrificata. A apprezzare i vantaggi delle corsie preferenziali degli autobus.

A fare la fila ovunque senza scavalcare e a dire désolée (dopo aver pestato i piedi a qualcuno, in fila per l’appunto, dal panettiere) senza pensare di essere davvero desolata. E, cosa simile, ho smesso di tradurre italiano i nomi delle persone, per evitare di ridere mentre si presentano. Bertrand non è Bertrando e Maxence non è Massenzio.


Ho cominciato a usare sigle, acronimi e diminuitivi ridicoli per ogni cosa. A abusare del voi in ogni circostanza. Tanto di guadagnato.

Con stupore mi sono accorta che a essere razzisti sono buoni tutti, ma c’è chi è più bravo: loro.
Chi è più sottile, arguto, ipocrita e chi meno. Anzi ho imparato un razzismo che non conoscevo.


Una volta –erano i primi tempi-, un’amica mi presenta a una tipa come la sua amica italiana. Che poi è la verità.
Dopo due minuti di conversazione si finisce per parlare di peso e diete. La tipa dice “ma quanto sei magra”. E questo è all’ordine del giorno, anzi forse in Italia succede più spesso, visto che qui si teme ancora la morte per denutrizione dei neonati che mangiano solo otto volte al giorno.
Poi aggiunge, coinvolgendo un quarto interlocutore “a forza di mangiare cous cous”. Sorrido perplessa, ma non capisco. Primo, perché nella mia ignoranza ho sempre pensato che i carboidrati facessero ingrassare. Secondo, perché in Italia si mangia la pasta. Terzo, perché io il cous cous la prima volta l’ho mangiato a Parigi.

Però giuro che non mi sono offesa fino a che la mia amica, dopo, non mi ha suggerito di farlo, commentando l’acidità della tipa. Grassa fra l’altro.



Il punto è che per offendersi del fatto che la tua faccia uguale cous cous, quando in vita tua non ti era mai sfiorata l’idea, devi aver maturato delle competenze che fanno parte del senso comune di una società. Ma tu magari con quella società non hai niente in comune e tanto meno il senso, perché un mese prima conoscevi solo Truffaut e a malapena.
Devi sapere per esempio che cous cous non è come paella. Che cous cous nello specifico, anche fosse il tuo piatto preferito, lì non vale come un complimento.


Ammetto che avere la faccia-da-cous-cous aiuta a acquisire in tempi accelerati una marea di competenze del genere. A quel punto si diventa hyper (come si suol dire prima di ogni aggettivo)-edotti in materia e volendo ci si sente anche un po’perseguitati.


Così mese dopo mese ho sviluppato a torto o ragione un forte sentimento del complotto che tarda a scomparire: svegliarsi la mattina e pensare che tutti, dico tutti meno quello del terzo piano, ce l’hanno con te. Ma quello del terzo piano è senegalese e non conta.


Quando ritorno è tutto uguale. Vale la teoria di cui sopra della scena primaria che gira in loop nella testa: arrivo all’aeroporto con la faccia-da-cous-cous pronta a incazzarmi con chiunque.

Eppure. Eppure sono volutamente bugiarda. So bene che Parigi non è tutta lì, quando un caffè in terrasse e il vento che ti fa arrossire, bastano a convincerti per quattro minuti che la vita è bella.