domenica 27 luglio 2008

EILE MIT WEILE/3


Giovedì alle sette Obama era a un chilometro da me e io non l’avevo capito. Sempre per colpa dei famosi intoppi linguistici che dicevo l’altro giorno.
Avevo intravisto nelle edicole qualcosa su Obama. Sapevo che stava facendo il giro del mondo, ma non ho la televisione a casa e non leggo repubblica.it, non immaginavo che passasse di qua. Qua vicino, anzi vicinissimo, a me che a quell’ora sono regolarmente inchiodata in biblioteca.
E mentre la sera verso le dieci torno a casa, nella tv del metro sfilano le immagini di una folla oceanica, una roba da concerto dei Rolling Stones, un grande raduno all’aperto, tutti lì per Obama. Eppure ancora non connetto e non capisco dove siamo.
Alla fine rientro a casa. Johanna si lamenta del casino che c'era in giro (ma il casino è un concetto estremamente vincolato alla cultura del proprio stato-nazione, per me Berlino non sarà mai, mai e poi mai, un casino) perché Obama era alla Siegessäule. Mi racconta perfino dell’arrampicamento sull’albero di una sua amica nel tentativo disperato di vedere qualcosa in mezzo a quel macello di fan scatenati.
Allora capisco, vado su You Tube, confermo sì è tutto vero: Obama a Berlino e io che nemmeno me ne ero accorta.
Intavoliamo –in francese- una breve conversazione sull’argomento: tu non ci sei andata le dico? “Noo", Johanna mi risponde schifata Obama non le piace. Le dico: però, un bell’uomo… mi guarda interdetta. E poi è nero, le dico, sempre meglio un nero che un bianco. Sorride, in realtà nemmeno troppo perché mi prende sul serio (ed ero seria, ma a molti sarebbe potuta sembrare una battuta) e poi mi dice: "anche la Merkel è donna." Sottinteso: certo una donna è meglio di un uomo, ma la Merkel è una merda.
Ok stiamo dicendo che Obama è nero ed è una merda?
Io lo so che se vincesse le elezioni cambierebbe molto poco per i disoccupati americani, le scuole di serie F, la sanità, l’Iraq. Lo so che sarebbe comunque amico di Israele e che non sarebbe solidale con la causa del proletariato.
Eppure so anche cosa significherebbe per la nostra gente, come dice mio padre.
“Questo è un grande risultato per la nostra gente”, dice lui.
Non credo sia un grande risultato, Obama.
Ma la nostra gente, concordo, è entusiasta, fiera, alla riscossa. E credo che nel bene e nel male questi siano stati d’animo che facciano bene alla salute di chi è abituato da tempo immemorabile al razzismo e all’oppressione. Tanto per cambiare, per avere un diversivo rispetto a -Umiliazione- e -Senso di Impotenza-. Sì cambiare ogni tanto fa decisamente bene.
Forse Obama non cambierà niente. E io preferisco che non cambi niente lui piuttosto che non cambi niente un bianco. Solo questo.
La confusione post 89 dei tedeschi invece è incredibile e allarmante: pugni chiusi levati a tutto spiano per il discorso di Obama, proprio loro che pure di comunismo anche se fatto male ne sanno qualcosa. Cosa cazzo chiudi il pugno mi chiedo, Obama non è proprio comunista. Però parla così bene che deve avergli dato al cervello.

mercoledì 23 luglio 2008

EILE MIT WEILE/ 2

Inutile che ci giro intorno perché è un’ovvietà e la dico come è: un posto che non conosci ti dà adrenalina, ovvio.

Te ne dà il doppio se è Berlino ed ha una storia commovente che la leggi per strada.
Te ne dà il triplo se tutto quello che riesci a fare (comprare una carta telefonica internazionale per chiamare in Argentina, per esempio, oppure chiedere se degli stivaletti gialli hanno anche il 39) è un successo strappato ai mille prevedibili intoppi linguistici.
Te ne dà il quadruplo se, ed è il mio caso, frequenti Hegel da un po’ di tempo e pensi che le ultime lezioni le ha tenute proprio qua, a Berlino.

Eile mit Weile, di corsa con calma.
Con calma: perché tanto è inutile insistere, ci vorrà del tempo, anzi un’infinità, prima di parlare come Marlene Dietrich. E per ora me lo sogno di poter fare quattro chiacchiere con la panettiera. Al massimo compro il pane.
Di corsa perché cammino, cammino, studio, leggo ovunque.
Provo a decifrare tutti cartelloni pubblicitari e i manifesti che mi capitano a tiro, le insegne promozionali, le offerte speciali, le prime pagine dei quotidiani, i titoli dei libri degli altri dentro la metro e le mille indicazioni disseminate ovunque che piacciono tanto ai tedeschi.
Fare attenzione al gradino - non fare così- fare così e solo dopo fare colì - se non in questo modo allora provare nell’altro.

Tutto sempre chiaro. Tranne che se non sei abituata a leggere, appunto.
Ieri ero in biblioteca, entrata da poco, ma appena sconfitta al momento dell’iscrizione quando ho dovuto chiedere in inglese due o tre dettagli essenziali sul funzionamento del prestito per i non residenti. Salgo in sala lettura, uno spazio oceanico e silenzioso che però non ha nulla di statico: si sale, si scende, si sta in mezzo, come in una ragnatela stratosferica, basta non far rumore.
Su ogni tavolo della Staatsbibliothek c’è una scritta che dice che la presa per il computer è sotto il tavolo. Punto esclamativo.
Io la cerco tre minuti la presa finché una con la frangetta da dietro mi fa un segno, me la indica. Ringrazio, infilo, accendo e poi mi rendo conto: Steckdose unter der Tischplatte!
A saper leggere.
Ma questo fa parte dell’adrenalina. Capire, non capire, congratularsi da sola per aver trovato il supermercato seguendo correttamente le indicazioni che ti ha dato la famosa panettiera di cui sopra. Perdersi, stupirsi, stupirsi. Addormentarsi con l’incognita che proprio davanti a casa tua, davanti alla tua finestra, c’è un negozio che sembra un parrucchiere e che in vetrina promette una cosa a 2.99 E e che non sai che diavolo è. Finisce in ung e non sta nel vocabolario. Magari chiederò a Johanna, la mia coinquilina, e se non è un indecenza, per quello che costa, sicuro che andrò a farmela fare qualunque cosa sia.

martedì 22 luglio 2008

EILE MIT WEILE*/1


*ovvero: di corsa con calma.
E’così.
Per un po’ sarà come un diario.

Hermannstrasse 150. La stanza è enorme e il balcone dà sulla strada, Hermannstrasse appunto. Strada a quattro corsie costellata di pizzettari e commercianti turchi. Turchi i vicini di pianerottolo, turchi quelli del terzo piano, turca Yasmina, la bambina bellissima che mi aperto il portone il primo giorno. Turco il panettiere e il giornalaio. Turchi ovunque nei bar e nei phone center.
Appena sbarcata ho pensato: no.
No: per un mese e mezzo (e per una volta) voglio fare la fica in un quartiere fico. Voglio svegliarmi a Prenzlauerberg con l’odore delle verdure bio sotto casa. Con facce bianche di gente bianca e benestante, vestita bene.
Mi sono detta che sarei rimasta qui a Neukolln per una settimana, il tempo di cercare un posto altrove. Magari a Kreuzberg, che pure si è infighettato da morire rispetto a qualche anno fa. O a Friedrichsein, oppure meglio ancora Prenzlauerberg, il top.

Così ieri sono andata a visitare la casa di un tipo sulla Prenzlauer Allee. Il signor H.H. von U., giovane ma brizzolato. Dalla foto avrei detto nobile e gay, ma di persona era soltanto grigio.
Mortimer. Mi apre la porta scalzo con i calzini. Prima di stringergli la mano e salutarlo gli guardo i calzini bianchi, e d’istinto mi tolgo le scarpe, i miei sono a righe bianchi e neri.

Mi fissa negli occhi, ma non come un pervertito, piuttosto come un uno che potrebbe accoltellarti o accoltellarsi, dipende. Mi fa accomodare su una grande poltrona, che magari era marrone, o forse grigia non so. Mi chiede di dove sono, che faccio ecc ecc. Parliamo della casa, le spese, l'ADSL, il telefono non incluso.
E poi quando sto per alzarmi e salutare mi dice "aspetta rimani seduta, parlami di te, dei tuoi hobby". Giuro. Hobby? Gli dico che non ho hobby (non il bricolage, non la cucina, non il giardinaggio, non la pesca), ma ci rimane male. Allora penso che la danza può passare come un hobby. Glielo dico contenta. Come in un gioco a quiz quando pensi che hai la risposta giusta.
Ma lui è incontentaile, insiste, "e poi altri hobby?". E' scemo.
Però ok, vuoi la guerra? allora diciamo che mi piace viaggiare. Altro? Mi piace leggere, andare al cinema, a teatro,uscire, imparare le lingue, scrivere, ascoltare musica, conoscere gente.
Pessima, davvero pessima, prova di me. Comunque mi ha costretto lui, che alla fine pareva pure soddisfatto di questo patetico elenco di banalità.
In inglese veniva bene perché è come quando a scuola fai le frasi per imparare a usare I like.
Going to the movies, reading, writing, going out, learning languages, meeting people.
Volevi un hobby o due? te ne ho sparati dieci.

La conversazione mi intristisce non poco. Lo saluto prima che mi chieda la top ten dei miei piatti preferiti: davvero, devo andare, ti faccio sapere, domani.

Esco e piove. Cammino lungo Danziger Str. e quando arrivo a Eberwalderstr. ha già smesso.
I negozi bio. I negozi per bambini. Le biciclette di tutti i colori. Le donne con le scarpe fiche. I parrucchieri fichi anche loro. Epperò anche una quantità devastante di carrozzine d’epoca di tutte le forme. Tutti a spasso con uno o due bambini.
Le carrozzine intralciano il traffico delle biciclette e mi intralciano pure il cervello, mi mettono ansia, mi stancano, mi deprimono, mi deprime anche il biologico alla fine…fanculo Prenzaluerberg.
Sono prevedibile e tanto, ma tanto, scontata.
Neukolln, i turchi, Lidl, i bambini senza le carrozzine. Le ciccione, la puzza di fritto e di cipolla.
Mi sa che resto qua.

martedì 3 giugno 2008

IN ORDINE SPARSO

Ci sono delle cose a proposito delle quali mia madre mi diceva “poi-crescendo”, come qualsiasi altra madre suppongo.
Ci pensavo l’altro giorno riflettendo sul fatto che mi ostino a non comprare il biglietto dell’autobus da sempre, cioè da quando ho un’età ragionevole per prendere l’autobus da sola.
Non che non mi abbiano mai fatto una multa -anzi-, ma non ho imparato la lezione e comunque non ho voglia di comprarli questi biglietti maledetti, è più forte di me. Lo faccio sulla metro perché sono obbligata, ma tram e autobus non c’è verso.
E litigo con chi mi dice che l’Italia va a rotoli per colpa della gente come me, cosa che alla fine francamente mi sembra un po’ eccessiva. A dire il vero poi neanche in Francia, per almeno 4 anni, ho mai pagato il biglietto del metro, ma nessuno ha mai sostenuto che la Francia andasse a rotoli. Tantomeno per colpa mia.

Sorvoliamo. Quando mamma mi diceva questa cosa del “poi-crescendo” mi dipingeva una roba che io solo a pensarci non vedevo l’ora. Ero convinta che tra le cose meravigliose cui sarei stata destinata crescendo, ci fosse la lentezza; mi aspettava una vita lenta.
In senso lato: speravo che avrei imparato a parlare lentamente, a fare pausa, a reagire con calma, a contare fino a dieci prima di, a litigare sì, ma al rallentatore,a piangere solo con le lacrime senza contorcermi di singhiozzi, a uscire di casa almeno mezzora prima se da Porta Maggiore devo arrivare a Trastevere con l’autobus senza biglietto.

Ora mamma non me lo dice più crescendo. E io penso che invece aveva ragione nonna, più scettica, più cinica, più porta-jella. Nonna pensava che le persone fossero fatte di una certa pasta; la pasta poteva manifestarsi in età variabile, in alcuni prima in altri dopo, manifestatasi la pasta sarebbe stato inutile remare controcorrente. Il compito di una vita era accettare la propria pasta.
Io sospetto con rammarico di essere a pasta svelta, o comunque non lenta.
Peccato però. Una donna lenta ha una marcia in più.
Una donna lenta fa più sesso di una donna accelerata. E’ inevitabilmente più elegante.
Una donna lenta non è una donna rallentata, sia ben chiaro altrimenti non ci capiamo.
Una donna accelerata è goffa.
Una donna accelerata parla troppo oltreché troppo in fretta.
Una donna accelerata vive in attesa di qualcosa, anche quando non c’è niente d’aspettare, ma proprio niente. E il detto quando meno te lo aspetti per lei non esiste.
Una cosa inaspettata però mi è successa ieri, mentre in realtà aspettavo qualcos’altro. Un bip sul cellulare ed era Vodafone che mi ha sorpreso regalandomi un bonus di 5 euro. Il marketing è il re dei seduttori.

lunedì 2 giugno 2008

3 VETRINE E 1 CUORE INFRANTI

Ho cominciato da poco a leggere l’oroscopo e mi piace. Non sono ancora in grado di riconoscere un sagittario se lo incontro per strada, ma so che probabilmente io, leone, e un toro, non andremmo molto lontano.
Per ora mi sono limitata alle definizioni enciclopediche, al mio segno e all’ascendente – oltre ad aver sbirciato tra le combinazioni del sesso astrale- ma mi riprometto di studiare seriamente la questione. Ho tutta l’estate per andare a fondo.
Quella che segue ovviamente è un’ improvvisazione.

Diciamo che sabato 24 maggio Venere era di pessimo umore; niente di grave, ma le giravano le scatole. E che Venere con tutto il suo malumore entrava nel Leone a sua insaputa, sabato verso le cinque.
Lara perciò non sapeva che avrebbe trascorso un pomeriggio di merda.

Nel frattempo Plutone, il più odioso dei pianeti entrava nella testa di dieci, dodici, quindici, mentecatti del Pigneto.
Mentecatti fascisti, perché a me dei tatuaggi del Che non importa e io le aggressioni con le spranghe le chiamo fasciste. Mentecatti razzisti perché se pensi che il degrado è colpa degli immigrati non solo sei razzista ma anche miope.
Plutone del resto non è mai stato un pianeta intelligente. C’è che dice che è nero, mortifero e vendicativo, chi dice che è malavitoso, chi dice che è un terrorista. Io dico che è fascista.

Venere invece è solo un po’ squlibrata. Just like a woman, come tante. Capricciosa e volubile, alcuni non la sopportano, io invece nutro per lei una stima incondizionata. E poi che fatica essere donne in mezzo a quell’orda di pianeti uomini e barbari.
Allora ogni tanto perde la brocca, si innamora, si arrabbia, si concede, si brucia, si pente, si vendica, si commisera, si sente una merda, si sente una fica, si addormenta pensando che domani è un altro giorno. Come Rossella O’Hara.

Quel sabato le avevano dato buca, e lei era rimasta male. Non si dà buca a Venere, pensava, altrimenti che Venere è. E ci pensava ossessivamente, ma così ossessivamente che si era dimenticata dell’appuntamento di Lara.
Lara non c’entrava in tutta questa storia. Lara fantasticava da giorni pensando al suo appuntamento con Carlo, sabato pomeriggio, al solito posto. Lara l’oroscopo non sa nemmeno cosa sia e degli spostamenti dei pianeti nel suo segno non si era mai preoccupata. Mai.

Eppure senza Venere saltano gli appuntamenti dei comuni mortali. I comuni mortali come Lara non sanno che è colpa di Venere, e allora reagiscono come se fosse colpa loro. Carlo la chiama e le dice che non può. Lara ammutolisce, accetta, ok, sarà per un’altra volta, però rimane di merda.
Esce di casa come per andare all’appuntamento, ma non sa dove andare, allora va a spasso e basta e finisce per bere un caffè di troppo, il quarto della giornata in un bar a caso. Paga e esce cercando un tabaccaio. E’ giù, anzi molto giù.

A pochi metri Plutone aveva scatenato un putiferio.
La sfortunata combinazione astrale della giornata di Lara fa sì che dopo la buca, camminando senza senso, finisca per caso nei paraggi del putiferio.
Tre negozi colpiti: un alimentari, un call center che è pure lavanderia, un bar. I dieci, dodici, quindici mentecatti avevano spaccato le vetrine a bastonate e anche qualcos’altro. Nassim si era beccato una botta in testa all’altezza dell’orecchio e aveva la faccia come un pallone. Tra le sei e le sette sono tutti lì a raccogliere i cocci, affaticati, spaventati, umiliati mentre i giornalisti accorrono e li prendono in foto con le scope in mano.
Arrivano i rinforzi, il comitato immigrati, i militanti solidali, i curiosi, la polizia, la televisione.
Tutta colpa di Plutone, fascista e razzista.

Lara inorridisce, dimentica di comprare le sigarette, piange. E quando parla con la gente per strada sono tutti d’accordo: è una vergogna. Però c’è chi dice però, “Però pure loro non se ne può più. Il quartiere fa schifo”.
“Lei ci dormirebbe con i tamburi tutta la notte sotto casa?”. Lei sì perché ha il sonno pesante.
Passino i tamburi, ma la droga, lo spaccio, la pipì?
Le vogliono far credere che è stato un raid contro la pipì e contro la droga. Poi salta fuori la storia del portafoglio rubato da un nordafricano e la complicità dell’indiano bugiardo, padrone di uno negozi colpiti. Però la logica le dice che c’è qualcosa che non va: un nordafricano ruba un portafoglio e i dieci, dodici, quindici mentecatti spaccano i negozi di un indiano e due bengalesi, mentre la gente del quartiere che muore dalla voglia di dire la sua ai giornali ripete l’insulsa cantilena del “noi non abbiamo problemi con gli immigrati, però loro…”
La versione ufficiale (di Alemanno e di tutti) diventa: regolamento di conti per il controllo del territorio, la matrice politica è esclusa e i connotati razzisti pure, alla fine pare ci fosse perfino un senegalese tra i mentecatti. Il capo della banda è soltanto un tipo molto poco raccomandabile.

Eppure qualcosa non convince Lara e devo ammettere che non convince neanche me.
Io non sono l’ispettore Derrick. Perciò se un sabato pomeriggio di sole Mario e dieci amici decidono di spaccare la faccia e le vetrine di Yusuf & co per una storia di portafogli rubati o per una storia di controllo del territorio, io penso che in ogni caso un episodio del genere sia un episodio schifosamente razzista. Che ovviamente conviene far passare per una roba di malavita organizzata, così è solo un fatto, un fatto qualsiasi, peccato per le vetrine e tutti a casa come prima.

E No. Il razzismo sta proprio nel ricorrere alla giustificazione deleteria che se aggrediscono degli immigrati deve esserci un buon motivo: la droga, il portafoglio, la pipì, il territorio.
C’è sempre una spiegazione plausibile, benché condannabile, dietro una roba del genere: i rom rubano (e gli si dà fuoco), i nordafricani spacciano dove non dovrebbero (allora si impugnano le spranghe), i rumeni sono pericolosi (e scatta la caccia), i gay sono gay (ed è bene aggredirne qualcuno ogni tanto), i compagni della Sapienza provocano (e sono botte da orbi).

Il razzismo sta nel fatto che se c’è un problema il gioco delle parti prevede vittime italiane e carnefici immigrati. Carnefici che ad onor del vero non solo spacciano, ma lavorano: in nero, in bianco, come possono, ovunque. Ce ne sono tanti e i tanti diventano troppi appena succede qualcosa.
Qualcuno ha detto a Lara che non serve a niente difendere ontologicamente gli immigrati perché non sono tutti buoni. Ma Lara non difende gli immigrati perché sono ontologicamente buoni; li difende perché sono ontologicamente immigrati e quindi esposti, con frequenza sempre maggiore, a attacchi indifendibili come questi.

Giornataccia. L’oroscopo del giorno, che lei non aveva letto, le diceva di stare attenta.
Plutone è razzista da fare schifo, Venere sta fuori, e Giove e gli altri, al solito, fanno la siesta tutto il giorno.

domenica 13 aprile 2008

PRENEZ SOIN DE VOUS


Ancora Parigi.


Ho comprato tre paia di scarpe a soli 23 euro. Ho ingoiato formaggio almeno tre volte al giorno e sono andata a vedere tre mostre.
Tutto questo è superficiale e intenso quanto basta. Profondamente chic.


Delle tre mostre una è quella di Sophie Calle allestita tra i banchi della BNF Richelieu e sponsorizzata da Chanel. Il titolo -Prenez soin de vous- riprende l’ultima riga della lettera d’addio che Sophie C. ha ricevuto dal suo ultimo ex uomo.


Lui (X) pieno di rammarico e apparente nostalgia, dopo lunghi giri di parole ("je vous aime..." ecc. ecc.ecc.) le dice vigliaccamente addio invitandola a prendersi cura di sé. Chissa perché -mi chiedo- le dà del Lei.
Lei –«J’ai reçu un mail de rupture. Je n’ai pas su répondre.C’était comme s’il ne m’était pas destiné»- lo prende in parola e invita 107 donne a leggere, interpretare, ricamare, sputare su quella lettera. A prendersi cura di lei.


Attrici, traduttrici e soprani. Matematiche, fisiche, correttrici di bozze e performer. Adolescenti e speaker radiofoniche, pianiste, registe e architette, agenti dei servizi e esegete del Talmud.
E poi ancora avvocate, attrici, normaliennes, giornaliste, ballerine di tango, cantatrici di fado.

Tutte hanno avuto una copia della lettera tra le mani, ognuna ne ha fatto ciò che ha voluto a modo proprio.
La cantante l’ha cantata, la detective ha scritto l’identikit del malfattore, l’adolescente ha risposto con un sms ('Se la tira di brutto questo'), l’avvocato ha chiesto i danni per fraudolenza, la correttrice di bozze ha sottolineato in rosso le ripetizioni e in blu le imprecisioni terminologiche. Jeanne Moreau l’ha letta seduta al tavolo di casa sua, fumando una sigaretta. Victoria Abril nel suo letto di prima mattina.


Il risultato è una fitta ragnatela emotiva in cui Sophie si dondola e si compiace dello spettacolo. E io che, al solito, mi commuovo al centro di questo girotondo di splendide donne.

La cura di sé supera di gran lunga l’orizzonte delle creme anticellulite.

sabato 5 aprile 2008

JE NE REGRETTE RIEN. O QUASI


Un rifiuto è un rifiuto e ci vuole sempre un tempo ragionevole per elaborarlo.


La ragione però impiega un tempo X, mentre tutto quell’ammasso che ragione non è, nel mio caso, ci mette troppo tempo. Ed è una vita (una vita di 28 anni e mezzo) che si va avanti così.


Ci mette troppo tempo perché si ostina a non mollare la presa, a rimanere incollato alla scena primaria, a mandarla in loop in giro per la testa, cosa sintomatica per una con poca memoria.


Parigi è stronza come solo poche donne sanno esserlo. Quelle che se la tirano, civettano, si compiacciono. Quelle che non perdono la testa, o almeno non la perdono per te. Esiste anche la variabile maschile ma Parigi è donna, troppo donna, per essere paragonata a un seduttore qualunque.


Je ne regrette rien. Quattro anni e mezzo che non saprei riassumere in nessun modo.


Diciamo che ho imparato una lingua. Ho scoperto che non mi piace per niente il mio nome con l’accento sull’ultima a.

Ho imparato a andare in bicicletta, a ridere faticosamente di giochi di parole che all’inizio mi lasciavano pietrificata. A apprezzare i vantaggi delle corsie preferenziali degli autobus.

A fare la fila ovunque senza scavalcare e a dire désolée (dopo aver pestato i piedi a qualcuno, in fila per l’appunto, dal panettiere) senza pensare di essere davvero desolata. E, cosa simile, ho smesso di tradurre italiano i nomi delle persone, per evitare di ridere mentre si presentano. Bertrand non è Bertrando e Maxence non è Massenzio.


Ho cominciato a usare sigle, acronimi e diminuitivi ridicoli per ogni cosa. A abusare del voi in ogni circostanza. Tanto di guadagnato.

Con stupore mi sono accorta che a essere razzisti sono buoni tutti, ma c’è chi è più bravo: loro.
Chi è più sottile, arguto, ipocrita e chi meno. Anzi ho imparato un razzismo che non conoscevo.


Una volta –erano i primi tempi-, un’amica mi presenta a una tipa come la sua amica italiana. Che poi è la verità.
Dopo due minuti di conversazione si finisce per parlare di peso e diete. La tipa dice “ma quanto sei magra”. E questo è all’ordine del giorno, anzi forse in Italia succede più spesso, visto che qui si teme ancora la morte per denutrizione dei neonati che mangiano solo otto volte al giorno.
Poi aggiunge, coinvolgendo un quarto interlocutore “a forza di mangiare cous cous”. Sorrido perplessa, ma non capisco. Primo, perché nella mia ignoranza ho sempre pensato che i carboidrati facessero ingrassare. Secondo, perché in Italia si mangia la pasta. Terzo, perché io il cous cous la prima volta l’ho mangiato a Parigi.

Però giuro che non mi sono offesa fino a che la mia amica, dopo, non mi ha suggerito di farlo, commentando l’acidità della tipa. Grassa fra l’altro.



Il punto è che per offendersi del fatto che la tua faccia uguale cous cous, quando in vita tua non ti era mai sfiorata l’idea, devi aver maturato delle competenze che fanno parte del senso comune di una società. Ma tu magari con quella società non hai niente in comune e tanto meno il senso, perché un mese prima conoscevi solo Truffaut e a malapena.
Devi sapere per esempio che cous cous non è come paella. Che cous cous nello specifico, anche fosse il tuo piatto preferito, lì non vale come un complimento.


Ammetto che avere la faccia-da-cous-cous aiuta a acquisire in tempi accelerati una marea di competenze del genere. A quel punto si diventa hyper (come si suol dire prima di ogni aggettivo)-edotti in materia e volendo ci si sente anche un po’perseguitati.


Così mese dopo mese ho sviluppato a torto o ragione un forte sentimento del complotto che tarda a scomparire: svegliarsi la mattina e pensare che tutti, dico tutti meno quello del terzo piano, ce l’hanno con te. Ma quello del terzo piano è senegalese e non conta.


Quando ritorno è tutto uguale. Vale la teoria di cui sopra della scena primaria che gira in loop nella testa: arrivo all’aeroporto con la faccia-da-cous-cous pronta a incazzarmi con chiunque.

Eppure. Eppure sono volutamente bugiarda. So bene che Parigi non è tutta lì, quando un caffè in terrasse e il vento che ti fa arrossire, bastano a convincerti per quattro minuti che la vita è bella.